Era il 13 gennaio 1985 quando con la mia amica Roberta abbiamo fatto questo libro correndo fuori con il fotografo a fermare la città

Mario De Biasi, Milano città imprevista, Cordani editore, 1985
Fotografie di Mario De Biasi, presentazione di Domenico Porzio, testi di Katia Bagnoli e Roberta Cordani
Il fondale ha un color grigio cielo
Nella scena fissa, Milano, una fuga di quinte.
Figure chiamate dal nulla a evocare l’inverno
Rincorrono a vela il vento di tramontana.
Esseri fantastici alla ribalta.
Di pietra e ghiaccio neoclassiche curve,
Di bianche statue fredda castità.
Abbracci di stalattiti sul ponte.
Sottile cristallo boemo dei tempi di Maria Teresa
Eco di luce lo attraversa improvvisa.
Rosso il cigno avanza. In proscenio.
Al giardino i bambini accendono colori.
Si incrina e comprime il velo compatto,
In un attimo, se il sole si affaccia.
E un uomo accarezza la lastra.
sfiora sapiente la statua.
Prega che belli restino testa, profilo,
Remoti, nell’involucro di ghiaccio
I fianchi, la curva gelata del piede.
Mendica un’altra tregua al tempo,
Esistere almeno fino a sera nel teatro intatto.


Aprire il cancello del parco, alle memorie, al silenzio, ai pupazzi di neve, al bianco e al nero, agli altri pochi colori, all’incantamento. L’inferriata è un merletto, fili di lucida seta s’intrecciano preziosi, trina di Bruges con l’anima in ferro che cigola appena alla spinta.
Immagini statiche, incise: il tempietto, grandi fiori gelati, a mazzi, di cui indovino appena i contorni, pietra stagliata. Gli alberi più immobili del mondo mi fissano, senza fronde, secchi arabeschi bizzarri.
Risalgo il torrente gelato, fino al castelletto del quattrocento. A Villa Reale un metro di neve chiara, farina per la torta nuziale di un Alboino e della sua bionda e nordica sposa. Se arrivassero, all’improvviso, sbucando da dietro la cupola del Planetario, su una slitta tirata da dodici renne, non si stupirebbe il guardiano vestito di giallo che ancora, attonito, spia com’è cambiato in una notte soltanto il suo verde giardino.
Lo so che qui m’è vietato l’ingresso, perché non sono un bambino, eppure, mi domando chi potrebbe davvero affermarlo in un giorno così. Al parco incontro un avventurosissimo merlo, due canestri pieni di neve, le panchine sommerse. Immagino che le sirenette non abbiano cantato stanotte per rispetto al lungo silenzio che è sceso e ha coperto, a poco a poco, le voci di ieri, le luci.
Di questa avventura strana, di questa mattina bianca come non si vedeva dal millenovecentoquaranta, “lieto ne testimonia, sul pianeta Terra, nella città Milano, mentre vaga, di sé dimentico e di tutto, lungo le calme vie che si ridestano” addì sedici gennaio millenovecentottantacinque, ore sette e quaranta, un milanese.

15 GENNAIO: Nevica tutta la notte. Dopo il gelo aspro dei giorni passati la temperatura è finalmente salita. La partenza è fissata a domani, intorno a mezzogiorno, le ore più calde.
Prima di andare a dormire mettiamo a punto l’equipaggiamento per la scalata; quelli tra noi che il comandante non porterà con sé ci guardano pieni d’invidia. Le autorità sono state categoriche: soltanto gli uomini indispensabili, non uno di più.
16 GENNAIO: Dune, affossamenti, montagne; arrivare all’appuntamento in Piazza Cavour è difficile.
Il comandante indossa la stessa giacca a vento che l’ha difeso dal rigore del polo, gli strumenti sono ben protetti. Ci dividiamo il carico: a mio fratello l’ombrello, a me il cavalletto. In pochi minuti siamo ai piedi del massiccio. Guardo in sù la grande intrusione rocciosa con superficie scolpita e le guglie, centrali, laterali, ovunque.
Fino alla prima terrazza tutto va bene, il percorso è già stato battuto, poi, con la guida, cominciamo a salire. La neve arriva fino alle ginocchia, ci rallenta, arranchiamo a fatica.
Non ci voltiamo mai indietro per non essere colti dalle vertigini, dal mal di montagna. Ancora poco e siamo arrivati. Vediamo già la vetta dorata, i secolari custodi che muti ci lasciano passare, e muti anche noi, più grevi nel passo, affrontiamo l’ultima spirale in salita.
Al limitare del gotico ci fermiamo al riparo d’una volta marmorea; una parete di fronte, alle nostre spalle filari di guglie, geometrie grigiochiaro, cielo denso che scende a inghiottirle, superficie convessa, grandangolo.
Apro una finestra con un colpo d’ombrello nella neve friabile, belvedere sulla bianca città. Case e quartieri fuggono nell’orizzonte monocromo, tenue; sotto di noi la Piazza, foglio di musica, e gli uomini, note d’una melodia.
Al bar di via dell’Arcivescovado beviamo il caffè, doppio per il comandante. E la neve non smette di scendere.


Cara Marina Ivanovna, dedico questa pagina di diario a te perché il vento che soffia in questi giorni è proprio il vento russo di tramontana e il paesaggio è quello delle grandi steppe di cui mi hai tanto parlato. Il sentiero che dalla mia casa scende al lago è deserto dagli inizi del grande freddo, e nessuno viene più a passeggiare. Dalla riva posso vedere la città al di là del lago, distinguo la sagoma della cattedrale, il profilo dei quartieri più moderni. Tu diresti che dista duecento verste almeno,
ma nelle mattine chiare diventa visibile e mi sembra anche meno lontana. Il freddo inclemente scoraggia anche i bambini più arditi che hanno rinunciato a venire quaggiù a pattinare.
Vivo in un isolamento reso ancora più duro dalla particolare asprezza del gelo, esco raramente da quando il vecchio Pietro se ne è andato e nessuno bada più ai cavalli; brucio la legna con parsimonia poiché le provviste non dureranno in eterno. Sono tormentata soprattutto dal desiderio di parlare con un altro essere umano, di cogliere la vita nel suo movimento.
Qui tutto è immobile, nemmeno gli alberi fremono più sotto il peso tremendo della neve, gli uccelli sono andati via o morti, anche le cornacchie.
È tutto bianco. Tutto è bianco e mi abbaglia, non distinguo più il confine tra terra e cielo e lo scorrere delle ore non muta quasi lo schermo concavo, candido e riflettente in cui sono imprigionata. Io stessa stento a credere d’essere ancora viva, a volte, e non ricordo più da quanto tempo la neve monotona scende sulla terra e non conto più i giorni che mancano alla fine dell’inverno, se mai, mi accade di pensare, qualcosa riuscirà a forare l’adamantina durezza di questo rivestimento, a domare l’arroganza del gelo.
Eppure, ieri, se non sbaglio, ho intravisto nella lastra lucida del lago un segno, una fenditura o una crepa, ma non sono riuscita a mettere bene a fuoco perché i miei occhi che fissano da tempo infinito la luce bianca sono stanchi. Potrebbe essere il disgelo, se non mi sono sbagliata, e era davvero acqua di vita quel che si muoveva nella spaccatura.
Forse verrà, dunque verrà primavera ancora, timidamente, a piccoli passi sorpresi, proprio come la primavera russa. Gli alberi si scrolleranno via il loro peso e metteranno le gemme e poi fioriranno, il ghiaccio si scioglierà del tutto e le vele solcheranno l’acqua, colorate, e torneranno gli innamorati dell’Idroscalo domenicale, insieme a tutte le altre creature vive della terra.

dal Corriere della Sera, 22 novembre 1985:
… raffinato reportage sui “giorni della neve” firmato da uno dei più quotati fotografi nazionali: Mario De Biasi. L’elegante volume (121 pagine a colori, 50mila lire) pubblicato da Cordani, editore tradizionalmente sensibile alla grafica e all’arte, racconta attraverso le belle immagini dell’autore, i testi delicatamente surreali di Katia Bagnoli e Roberta Cordani e la presentazione di Domenico Porzio la storia e le sensazioni di una Milano candida, trasformata da nuove geometrie…

da un post del Caffè letterario di ImageMag, 12 Gennaio 2022 – di Mosè Franchi –
… Siamo a Milano, nel 1985. Nevica ininterrottamente dall’Epifania fino al giorno di San Modesto Martire. La città si copre di una coltre bianca mai vista, se non quarant’anni prima. Il rumore cede al silenzio, ma si continua a vivere, fino alla resa dovuta e voluta. Nulla si ferma, però occorre adattarsi, capire: guardare la città da un’ottica diversa. Mario comprende il fenomeno nella sua vastità. Esce con la sua attrezzatura, si fa accompagnare. Scala il Duomo, visita i parchi; frequenta il centro città, i Navigli. Non cerca la diversità, piuttosto sta dalla parte della neve: perché copre, invade, disegna, impedisce persino. Documenta anche il disgelo, Mario; quasi con malinconia.
Il libro si regge su un racconto solido, ben ritmato. I testi fungono da valido supporto. Si tratta di un libro dei libri, per come noi lo vorremmo oggi. Del resto, quella Milano era da bere: non dimentichiamolo. …
https://www.imagemag.it/magazine/caffe-letterario/379-la-nevicata-del-secolo.html
Pagina pubblicata il 13 gennaio 2025, nell’anniversario della grande nevicata.